I panchamahabhuta, per costituire le strutture anatomo-fisiologiche degli organismi viventi, danno origine ai tre fluidi corporei o dosha aggregandosi tra loro a due a due: akasha e vayu formano Vata, tejas e jala costituiscono Pitta, jala e prithivi danno Kapha.
I dosha, secondo l’Ayurveda, realizzano dunque la prakriti o prakruti dell’individuo, la quale è più propriamente l’espressione fenotipica del suo patrimonio ereditario, di conseguenza immodificabile. Prakriti e prakruti hanno lo stesso significato di creazione primordiale, ma alcuni Autori preferiscono utilizzare il termine prakruti in riferimento alla costituzione corporea dell’essere senziente e riservano il concetto di prakriti alla Natura della speculazione cosmologica del Sàmkhya darçana. Poiché la stragrande maggioranza dei Vaidya (medici ayurvedici) e degli Operatori ayurvedici utilizzano quest’ultimo termine per riferirsi alla costituzione individuale, anch’io nel prosieguo di quest’articolo parlerò sempre di prakriti quando tratterò dell’Uomo come manifestazione del suo genotipo.
Per intenderci il patrimonio ereditario di un individuo, costituito dal suo DNA (acido deossiribonucleico) rappresenta il suo genotipo, ossia l’insieme dei geni del suo genoma o patrimonio ereditario. Di quei geni soltanto una piccola percentuale si esprime e rappresenta il fenotipo. Parlare di espressione fenotipica o manifestazione del genotipo, significa semplicemente riferirsi ai geni che esplicitano le loro caratteristiche, costituendo nell’insieme la prakriti di ognuno di noi.
Dunque ogni uomo è la manifestazione somatica e psico-fisiologica di una piccola quantità del suo patrimonio genetico che, in gran parte, è represso da complicati meccanismi di biologia molecolare.
Ragionando in termini di dosha è possibile valutare le caratteristiche psico-fisiologiche e le alterazioni patologiche (vikriti), senza per forza conoscere la Microbiologia e la Patologia medica, così come ragionando in termini di rasa si possono affrontare problematiche dietetiche, senza necessariamente conoscere la struttura biochimica dei nutrienti.
Infatti l’Ayurveda è la scienza del senso comune, ma sia ben chiaro: ho soltanto detto che utilizzando la terminologia ayurvedica, anche le persone comuni possono comprendere questioni altrimenti incomprensibili, non ho detto che possono fare i Medici o i Nutrizionisti!
Vata, composto di akasha e vayu, è certamente il fattore dell’energia cinetica nella prakriti, perché vayu o vento suggerisce l’idea del movimento e della propulsione.
Le sue qualità sono: freddo, secchezza, leggerezza, irregolarità, mobilità, sottigliezza, nitidezza, ruvidezza, tempestoso.
Di conseguenza vata controlla tutti i movimenti del corpo, dal livello citologico a quello istologico ed osteo-muscolare, vata è responsabile della fisiologia cardio-respiratoria e dell’omeostasi tissutale, nel senso che mantiene l’equilibrio fisiologico dei dathu, ed inoltre gestisce il Sistema Nervoso Centrale e Periferico.
Vata, in qualità di “sovrano” dei dosha, pervade l’intero organismo ed il suo ruolo è di fondamentale importanza in quanto trasporta se stesso e gli altri due dosha verso le zone periferiche del corpo e li aiuta a svolgere le loro funzioni regolari.
Vata mobilita, sposta ed espelle dal corpo tutte le secrezioni di competenza del dosha kapha che ritenute nel corpo sarebbero nocive (Sweda o sudore, Mutra o urina, Vitta o feci, Nakha o unghie, Romakupa o peli e capelli).
Pitta, composto di tejas e jala, è il mediatore tra vata e kapha, tra energia cinetica e potenziale, ma ha anche il gravoso compito di far cooperare due nemici antagonistici: tejas e jala, fuoco e acqua. Un incendio può essere spento da una giusta quantità di acqua, così come l’acqua può dissolversi sotto forma di vapor acqueo se il fuoco è abbastanza potente. Secondo l’Ayurveda, pitta è assimilabile ad agni perché la sua attività è simile al fuoco. Infatti questo dosha presiede principalmente le funzioni enzimatiche ed endocrine. Gli enzimi sono catalizzatori biologici, cioè acceleratori delle reazioni chimiche, che intervengono nei processi metabolici. Il fuoco provoca ossidazioni violente, denominate combustioni, mentre le batterie enzimatiche provocano ossidazioni controllate che, esattamente come le combustioni, producono energia, anidride carbonica (CO2) e acqua. Nei sistemi biologici l’energia che si libera nelle ossidazioni, in gran parte viene immagazzinata come “moneta energetica” sotto forma di ATP (adenosintrifosfato) ed in parte viene dissipata sotto forma di calore. Se si considera che le reazioni biochimiche catalizzate dagli enzimi avvengono in ambiente acquoso, è stupefacente che cinquemila anni fa i Vaidya, che di chimica non sapevano nulla, abbiano associato pitta a tejas e jala.
Credo tuttavia che i primi medici dell’umanità abbiano fatto questa associazione soprattutto in relazione al succo gastrico che, contenendo acido cloridrico (HCl), dà senz’altro l’impressione di un fuoco caustico e corrosivo in soluzione acquosa. Basti pensare che il pH del succo gastrico è 2, cioè la concentrazione idrogenionica (H30+) del succo gastrico è 10-2 moli per litro che equivale a circa 0.37 grammi per litro di HCl dissociato. Un’enormità!
Le qualità di pitta, essendo associato al concetto di agni, sono: caldo, leggerezza, sottigliezza, modica untuosità, intensità, fluidità, fetido.
Pitta non presiede soltanto i processi digestivi e le funzioni epato-biliari, ma anche le trasformazioni della sfera mentale, emotiva e psicologica.
Kapha, composto di jala e prithivi, è il fattore dell’energia potenziale che gestisce la stabilità e la lubrificazione del corpo. Mentre pitta deve mediare tra due nemici irriducibili, kapha si preoccupa di mantenere nelle giuste proporzioni jala e prithivi, acqua e terra.
In presenza di un’adeguata quantità di acqua, i soluti (solidi) si sciolgono completamente e si distribuiscono in maniera uniforme nelle soluzioni propriamente dette, ma se il solvente è scarso il soluto precipita e si raccoglie nel contenitore come corpo di fondo.
Ciò significa che se jala scarseggia, grumi di prithivi sedimenteranno nelle strutture anatomiche e potranno formare per esempio calcoli biliari o renali, così come se jala si accumula più del necessario si avrà la comparsa di un edema.
Un medico ayurvedico, preso atto della diatesi ossalica o della sintomatologia edematosa, agirà dunque sul dosha kapha, ripristinandone la corretta fisiologia.
Le qualità di kapha sono: freddo, grossolanità, untuosità, pesantezza, stabilità, umidità, morbidezza, opacità, densità, levigatezza, vischiosità.
Così come pitta alimenta il fuoco metabolico, kapha gestisce il raffreddamento corporeo. Ogniqualvolta si ha una frizione che genera calore, kapha produce secrezioni oleose con funzioni protettive nei vari distretti corporei: bocca, occhi, apparato respiratorio, stomaco, articolazioni, vie uro-genitali.
I dosha, di cui ho dato una sintetica descrizione, non debbono essere considerati come sostanze materiali, ma in maniera più ampia e filosofica.
Tant’è vero che Sushruta afferma che i tre guna stanno alla prakriti cosmica come i tre dosha stanno alla prakriti individuale (prakruti).
Dunque identificare i dosha kapha, pitta e vata con muco, bile e gas rispettivamente, come accade nella traduzione di certi testi classici dello Yoga, non è del tutto corretto, perché i dosha sono fattori energetici. E’ vero che una stimolazione dei dosha determina una produzione delle sostanze suddette, così un incremento di kapha provocherà un aumento del muco, ma kapha non è muco, una brusca stimolazione di pitta incrementerà la produzione di bile, ma pitta non è bile ed un aumento di vata accrescerà il volume di gas, ma vata non è gas.
Così come il gioco dei tre guna avvia l’evoluzione cosmica (parinama), il gioco dei tre dosha genera le diverse possibili prakriti o costituzioni individuali: Vata, Pitta, Kapha, Vata-Pitta, Vata-Kapha, Pitta-Kapha, Vata-Pitta-Kapha.