“Signore, la durata della vita è prestabilita o no?” (CS, Vim, III, 28)
E’ la domanda che il discepolo Agnivesha pone al maestro Atreya all’interno di uno dei testi fondamentali dell’Ayurveda: la Charaka Samhita. La questione è particolarmente importante all’interno del ragionamento sulla medicina. Se infatti la durata della vita fosse prestabilita, cadrebbe il senso dell’esistenza della medicina stessa. A che servirebbe allora curarsi?
La prima e più naturale risposta che viene da suggerire è: per allontanare il dolore e per trovare rimedi a quelle “malattie che lo emaciano (il corpo ndr) e causano grandissima pena”. Nell’antichità il dolore veniva considerato anche e soprattutto come rito di passaggio, riguardava eventi naturali come la maternità, oppure era considerato come inevitabile componente all’interno del percorso di guarigione. Nel mondo occidentale attuale, invece, troppo spesso il dolore diventa il protagonista, arrivando addirittura a mettere in ombra la malattia. Si rileva la propensione a considerarlo non più tanto un evento possibile e comune della vita umana ma il vero problema. Il dolore non “accomuna” più. C’è anzi la tendenza a mettere distanza tra chi ne prova e chi gli è vicino, in un fraintendimento del concetto di rispetto della privacy che sfocia invece frequentemente in distacco empatico.
Troppo spesso il paziente si comporta più come consumatore di analgesici prima che sentirsi un individuo che necessita di cure. L’errore di fondo è quello di recarsi dal medico come se si vada da un tecnico, pensando di “aggiustare” ogni tipo di malattia così come si ripara l’automobile dal meccanico. Nella nostra “analgesica” società l’attenzione al dolore è diventata esclusiva e ha fatto sì che il malato guardi più alla scomparsa immediata del sintomo piuttosto che risalirne alla causa e quindi alla ricerca della cura appropriata.
Nella sua concezione, l’Ayurveda mette al centro del suo approccio il paziente e la sua condizione globale di salute, considerando innanzitutto le cause dalle quali proviene l’eventuale disagio. Le cause fondamentali che generano ogni malattia sono tre: prajna-aparadha (errore dell’intelletto); kala-parinama (variazioni metereologiche e temporali); asatmyendriyartha samyoga (contatto malsano degli organi di senso con i loro oggetti di percezione). Sarà il medico ayurvedico (vaydia) a stabilire quali siano le cause e a decidere il tipo di intervento per ripristinare la condizione di salute.
Tornando alla domanda iniziale di Agnivesa sulla predeterminazione della fine della vita, il maestro Atreya così risponde “La vita si esaurisce nel mezzo [della sua durata potenziale] se si intraprendono attività non in armonia con le proprie forze” (CS, Sut, XII, 38). Ancora una volta viene ribadito il concetto di responsabilità che in Ayurveda è fondamentale: ciascuno determina il proprio destino in base alle proprie azioni. Se le azioni verso se stesso sono adeguate la persona vivrà a lungo, altrimenti vivrà poco e male. La vita dell’uomo è come i frutti di un albero: segue il suo naturale processo di maturazione.