“Essere o non essere, questo è il problema”(3.1, 56)
Inizia così uno dei più celebri soliloqui teatrali di tutta la letteratura mondiale. Chi parla è Amleto, principe di Danimarca, colui che dà il nome alla tragedia e fulcro di tutta l’opera. Dopo l’assassinio del padre da parte dello zio Claudio – che in seguito ne ha sposato la moglie diventando re e suo patrigno – Amleto trama la vendetta. Non gli è però facile scegliere. In quello che poi prenderà il nome di “dubbio amletico” c’è tutta la tensione di quest’uomo che pensa e non agisce, dubita, esita, indugia, temporeggia. Amleto è il dramma dell’inazione.
Vivere o morire? Sopportare vivendo i colpi dell’oltraggiosa fortuna o metter fine al mare delle afflizioni tramite la morte? Darsi la morte potrebbe essere la soluzione, se non fosse per la condanna religiosa. E poi, se si fosse ancora più infelici dopo la morte, in quel ”territorio inesplorato dal cui confine non torna indietro nessun viaggiatore”?
Il destino di Amleto sembrerebbe segnato dalla necessità di uccidere il re Claudio per due motivi: il primo in quanto principe - e in nome del popolo danese - per punire l’usurpatore del trono; il secondo come figlio, per vendicare l’assassinio del padre e per lavare l’onta del matrimonio incestuoso della madre con lo zio. Ma per Amleto non è così facile scegliere. “Words, words, words” preso dalle parole, dalle speculazioni, Amleto si affida al pensiero razionale per procrastinare un’azione che appare sempre più inevitabile e necessaria.
Quello che Amleto non sa è che più di un migliaio di anni prima, un altro uomo si era trovato nella sua stessa situazione. Arjuna, guerriero e uno dei cinque fratelli Pandava, deve combattere contro i cento Kaurava, suoi cugini. I due gruppi contrapposti si contendono il regno di Bharata. Il Mahabharata (il grande combattimento dei Bharata) è il componimento epico che narra di questa grande battaglia che vede contrapposti due schieramenti della stessa famiglia d’origine. Arjuna - l’Amleto indiano secondo Mircea Eliade - non vuole combattere contro i propri stessi parenti e vive così lo stesso dramma di Amleto.
Di fronte ai due schieramenti spiegati, pronti per la battaglia, Arjuna si rivolge così a Krishna, l’incarnazione del dio Visnù che è la sua guida:
“Oh Krishna, quando vedo i miei desiderosi di combattere, pronti a farlo, mi vengono meno le membra, la mia bocca si disseca, un brivido si impadronisce del mio corpo […] come potremmo essere felici, o Madhava, dopo aver ucciso la nostra parentela?” (I, 28-37)
Comincia così la Bagavadgita, il “canto del Beato”, un’opera filosofica in forma dialogica contenuta all’interno del grande poema epico Mahabaratha, in cui Krishna dà ad Arjuna tutte le risposte ai suoi quesiti, spiegandogli perché è necessario che Arjuna combatta. Il guerriero non può e non deve sottrarsi all’azione. Ciò che deve affrontare ora è il risultato delle sue azioni precedenti, o Karma. Rinunciandovi ora Arjuna non eviterà il ripresentarsi del dilemma in futuro, che si scioglierà solo affrontandolo. L’azione è indispensabile ma va scelta con distacco, perché il risultato dell’azione viene comunque da Dio.
Arjuna e Amleto sono due uomini che affrontano la stessa situazione con identiche angosce e tormenti, con la stessa indecisione di fronte alla necessità di una scelta operativa. Il loro dharma è molto simile. Ma mentre Amleto è solo di fronte agli eventi, Arjuna ha Krishna al suo fianco, che lo conduce gradualmente dall’immobilità alla visione di una nuova prospettiva. Lungo tutti i diciotto capitoli dell’opera Krishna porta Arjuna a conoscenza di quelli che oggi chiameremmo i “fondamentali”, ovvero la “più profonda e segreta comprensione della natura del processo vitale” (Peter Brook, regista del Mahabaratha cinematografico).
“Così la coscienza ci rende tutti codardi e così il colore naturale della risolutezza è reso malsano dal pallore del pensiero, e imprese di grande altezza e momento per questa ragione devìano dal loro corso e perdono così il nome di azione” (3.1, 83-88)
Amleto non risolve il suo dubbio. Rimane impantanato nella speculazione per tutta la durata del dramma shakespeariano. Ciò che viene perso nella rinuncia all’azione non è tanto l’azione stessa quanto il suo nome. E’ questo ad avere peso nella vita di Amleto ora.
Se Amleto avesse incontrato Krishna, questi avrebbe potuto dissuaderlo dal dare troppo peso ai nomi, e avrebbe potuto spiegagli che:
“Per chi non si compie non vi è quiete; senza quiete, donde può venire la felicità?” (II, 66)
E quindi:
“Quanto a te, compi le azioni prescritte, perché l’azione è superiore all’inazione e la tua vita corporale non potrebbe essere mantenuta senza che tu agisca” (III, 8)
I due racconti finiscono entrambi in maniera cruenta. La battaglia descritta nella Bhagavadgita si conclude in una carneficina, mente l’Amleto termina con la morte della famiglia reale danese, ma lo spirito che traspare dalle ultime parole dei due protagonisti è ben diverso. Così si rivolge il morente Amleto all’amico fidato Orazio:
“ sèguita a respirare dolorosamente in questo mondo crudele, non foss’altro che per raccontar la mia storia” ( 5.2, 342-343)
Mentre al vincitore Arjuna non rimane che ringraziare:
“Il mio sviamento si è dileguato; grazie a te, Acyuta, ho ritrovato la mia presenza di spirito. Eccomi in piedi, liberato dal dubbio.” (XVIII, 73)
Se Shakespeare avesse letto la Bhagavadgita forse si sarebbe ad essa ispirato per l’ideazione di una guida e un maestro per Amleto e l’epilogo del dramma sarebbe stato diverso. Ma Amleto non aveva un Krishna sulla sua strada. D’altra parte, se Shakespeare avesse incontrato la Bhagavadgita oggi non avremmo l’Amleto.